Il lavoro oggi e la liberazione degli Israeliani nell’Antico Testamento

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di RICCARDO RENZI <>

Molto si dibatte e si è dibattuto sul lavoro e sul diritto del lavoro, sui nuovi contratti lavorativi, sulla certezza del lavoro e sulla morale stessa legata al lavoro. Il concetto del lavoro è indissolubilmente legato all’esistenza dell’uomo e alla sua condizione. Molti regimi totalitari ne hanno fatto un cavallo di battaglia, musicisti come Adriano Celentano e Claudia Mori ne hanno fatto un vero e proprio tormentone, in grado di vincere l’edizione del 1970 del Festival di Sanremo[1], tutti ricordano il celebre ritornello “Chi non lavora non fa l’amore”, ma il lavoro che valore ha realmente per l’uomo? Oggi più che mai è necessaria una riflessione sulle condizioni lavorative degli italiani, dal salario minimo orario, sino alle condizioni disumane vissute da molti lavoratori di piantagioni agricole. Il lavoro è essenziale per l’uomo e deve essere tale per poterlo nobilitare. L’uomo, dunque, deve vivere il lavoro “quasi” piacevolmente. Ma spesso sono le condizioni lavorative stesse a non permetterlo. Negli ultimi decenni c’è stato infatti un abbattimento dei costi del lavoro soprattutto a causa della delocalizzazione della produzione in paesi ove la manodopera costa meno, ciò ha portato ad un abbassamento generalizzato dei salari anche a livello nazionale, disoccupazione e aumento del costo della vita.

Ho ritenuto opportuno affrontale tale tema, proprio in tale sede, poiché essa può fornire uno spazio libero e slegato da vincoli perbenisti. Il tema necessita anche una certa urgenza dovuta proprio alla degenerazione della società capitalistica, ove a prendere decisioni non sono più lo Stato e la politica, mail potere finanziario, lo stesso che detta le regole alla base dei contratti lavorativi. Basti pensare alla micro o meglio non tassazione applicata alle multinazionali come Facebook, Amazon o Google, e ai contratti lavorativi con orari disumani sottoposti ai propri dipendenti (Amazon su tutti). In una società come questa, priva di valori e succube del dio denaro, anche il lavoro e denaturalizzato. Oggi si vive per lavorare e non si lavora più per vivere. Questa tipologia di lavoro molto ci richiama la schiavitù biblica, ove l’uomo perde la sua essenza umana. A tal proposito un aiuto su tale riflessione ci giunge proprio dalla Bibbia, precisamente dall’Antico Testamento, andiamo allora a vedere la concezione del lavoro direttamente nel testo.

Nella Bibbia compaiono diverse tipologie di lavori, quella più alta è costituita dal servizio, mentre quella più bassa dalla schiavitù[2]. Il nostro percorso originerà da Genesi 2, però va detto che a tale passo è legato un malinteso interpretativo che si è protratto per secoli, quello che vede il lavoro come diretta conseguenza del peccato originale. Questo erroneo concetto è legato al fatto che qui si mescolano passi della Bibbia assieme alla mitologia. Il versetto 15 è particolarmente esplicativo in tal senso: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo depose nel Giardino dell’Eden, perché lo lavorasse e lo custodisse». Ecco allora che l’uomo non è slegato dal lavoro prima del peccato originale. E poi: «Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: “Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire”»[3]. L’uomo può sì usufruire del giardino, ma deve custodirlo e lavorarlo. Il lavoro in quest’ottica è direttamente legato all’essenza dell’uomo, essendo questo immediatamente successivo alla creazione e precedente alla creazione della donna stessa. Dunque, nella concezione Biblica il lavoro è legato alla figura maschile. Alcuni esegeti tornano però al concetto di servizio, come status apicale della condizione umana e traducono: «perché lo servisse e lo custodisse (il giardino)». Il servizio è quindi la tipologia di lavoro più alta, dopo il peccato e la cacciata dell’Eden si scende di grado e si passa alla condizione della schiavitù nell’Antico Egitto.

Passando al libro dell’Esodo si vede come il lavoro d’Israele in Egitto è una forma di schiavitù. Con l’intervento di YHWH e la liberazione del popolo c’è di nuovo il passaggio dalla schiavitù al servizio. In Esodo 2 versetto 11 Mosè comprende immediatamente come la condizione degli ebrei fosse differente da quella degli egiziani: «Un giorno Mosè, cresciuto in età, si recò dai suoi fratelli e notò i loro lavori forzati. Vide un Egiziano che colpiva un Ebreo, uno dei suoi fratelli»[4]. All’inizio del libro dell’Esodo Israele si trova in Egitto, si moltiplica e diventa molto numeroso. Allora il Faraone, che non aveva conosciuto Giuseppe, s’impaurisce e decide di ridurre Israele in schiavitù: «Allora sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe. Egli disse al suo popolo: “Ecco che il popolo dei figli d’Israele è più numeroso e più forte di noi. Cerchiamo di essere avveduti nei suoi riguardi per impedire che cresca, altrimenti, in caso di guerra, si unirà ai nostri avversari, combatterà contro di noi e poi partirà dal paese”. Perciò vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati, per opprimerli con le loro angherie, e così costruirono per il faraone le città-deposito, cioè Pitom e Ramses. Ma quanto più opprimevano il popolo, tanto più si moltiplicava e cresceva, ed essi furono presi da spavento di fronte agli Israeliti. Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d’Israele trattandoli con durezza. Resero loro amara la vita mediante una dura schiavitù, costringendoli a preparare l’argilla e a fabbricare mattoni, e ad ogni sorta di lavoro nei campi; a tutti questi lavori li obbligarono con durezza»[5]. La traduzione di tali versi è molto letterale e la radice lavoro/lavorare è ripetuta ben cinque volte in pochissime righe. Si gioca sulla radice abad/aboda, non per indicare il servizio, ma la schiavitù. Dunque, la condizione lavorativa vissuta dagli ebrei in Egitto è una regressione rispetto allo stato di servizio originario.

Cerchiamo ora di comprendere la differenza tra il servizio e la schiavitù nell’Antico Testamento. A tal proposito ci sovviene in ausilio il capitolo 5 dell’Esodo, nel quale Mosè per prima cosa cerca di trattare con il Faraone chiedendo la liberazione degli Israeliti. Il Faraone però rifiuta e decide di peggiorare la loro condizione schiavile, aumentando il carico di lavoro e non concedendo più loro la paglia per la fabbricazione di mattoni, dovranno cercarsela loro stessi continuando a produrre la stessa quantità di mattoni. Da tale passo si rileva:

  • La persona è totalmente sottomessa al lavoro e non ha alcuna libertà;
  • La schiavitù annulla totalmente la creatività nel lavoro;
  • Il lavoro è sottoposto alle norme matematiche della produzione, legato al numero giornaliero di mattoni prodotti.

Il popolo riesce a sfuggire a tale condizione lavorativa, non con le proprie forze, ma con l’intervento di Dio, che risponde con un gesto concreto mandando tra loro Mosè. Significativo è il capitolo 6 dell’Esodo, nel quale Dio promette la libertà a Israele: «Dio parlò a Mosè e gli disse: “Io sono il Signore! Mi sono manifestato ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come Dio l’Onnipotente, ma non ho fatto conoscere loro il mio nome di Signore. Ho anche stabilito la mia alleanza con loro, per dar loro la terra di Canaan, la terra delle loro migrazioni, nella quale furono forestieri. Io stesso ho udito il lamento degli Israeliti, che gli Egiziani resero loro schiavi, e mi sono ricordato della mia alleanza. Pertanto di’ agli Israeliti: “Io sono il Signore! Vi sottrarrò ai lavori forzati degli Egiziani, vi libererò dalla loro schiavitù e vi riscatterò con braccio teso e con grandi castighi. Vi prenderò come mio popolo e diventerò il vostro Dio. Saprete che io sono il Signore, il vostro Dio, che vi sottrae ai lavori forzati degli Egiziani. Vi farò entrare nella terra che ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe; ve la darò in possesso: io sono il Signore!””»[6]. Qui Dio si rivela come Dio della libertà individuale, collettiva e lavorativa. La formula «Io sono il Signore» viene ripetuta all’inizio, a metà e in chiusura. Tale cadenza della formula ci deve portare a pensare che la struttura sia la stessa di una sorta di contratto di lavoro, da questo momento il popolo di Israele non è più schiavo del Faraone, ma al servizio di Dio. La condizione umana cambia nuovamente, c’è quel riscatto che riporta il popolo ad una condizione lavorativa degna. Il Signore vuol dire liberatore del popolo d’Israele, in altre parole, il contenuto del nome di Dio è la storia della liberazione d’Israele. Quando Mosè parla al suo popolo, essi non riescono a sentirlo perché stremati dalla loro condizione: «Mosè parlò così agli Israeliti, ma essi non lo ascoltarono, perché erano stremati dalla dura schiavitù»[7]. La condizione di schiavitù è alienante per l’uomo ed esso non riesce più ad essere sé stesso e a realizzarsi. Dunque, Dio, con il suo intervento salvifico, riconduce l’uomo alla sua condizione originale, ciò che esso è per natura, libero. Va detto che nella concezione testamentaria antica e del Medioriente Antico uno schiavo non è una persona, ma un bene posseduto, alla stregua di una merce. Per la Bibbia la persona è persona libera per sua natura ed essenza. Se la persona non è libera è una cosa, come sottolineato in precedenza. La liberazione divina non è il semplice passaggio dalla schiavitù alla libertà, ma dalla non esistenza all’esistenza. Dio “riscatta” il suo popolo, o meglio riscattandolo lo genera nuovamente. La condizione lavorativa schiavile è dunque alla base di tutta la riflessione.

Ma è giunta l’ora di chiedersi se l’affrancamento compito da Dio costituisce realmente una liberazione per l’uomo?

È sì vero condizione non è più quella schiavile subita in Egitto, ma è una vera libertà? Forse dal punto di vista meramente lavorativo lo è, ma dal punto di vista umano no, poiché il popolo Israeliano passa semplicemente da un datore di lavo all’altro, migliora sì la sua condizione, ma non è realmente libero, ma legato al “servizio” che deve al proprio Signore.


[1] “Chi non lavora non fa l’amore/Due nemici innamorati”.

[2] L. Alessio, Storia del lavoro, Milano, Corbaccio, 1940, p. 35.

[3] BibbiaEDU, edizione CEI 2008, https://bibbiaedu.it/CEI2008/at/Gen/2/

[4] BibbiaEDU, edizione CEI 2008, https://bibbiaedu.it/CEI2008/at/Es/2/

[5] BibbiaEDU, edizione CEI 2008, https://bibbiaedu.it/CEI2008/at/Es/1/

[6] BibbiaEDU, edizione CEI 2008, https://bibbiaedu.it/CEI2008/at/Es/6/

[7] BibbiaEDU, edizione CEI 2008, https://bibbiaedu.it/CEI2008/at/Es/6/


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