Perché il cattolicesimo è un “fondamentalismo”

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di WALTER PERUZZI <>

Il termine “fondamentalismo” nacque nel XIX secolo per indicare una corrente protestante degli Stati Uniti, secondo la quale le Sacre Scritture e i dogmi della fede (i “fondamenti”) devono ritenersi vere alla lettera. Alcuni lo usano anche come sinonimo di “dogmatismo”, attribuendolo a tutte le religioni. Ma per fondamentalismo, oggi, si intende soprattutto una dottrina religiosa che pretende di imporre le proprie norme morali a tutti, compresi i non credenti, con la forza delle leggi statali. Ciò include l’aspirazione a instaurare una teocrazia, cioè un regime in cui il potere religioso eserciti anche il potere politico, o quantomeno uno stato confessionale.

Fondamentalismi di ieri e di oggi

Un esempio di fondamentalismo è il regime esistente oggi in Iran, dove interpreti delle leggi dello stato, basate sul Corano, sono gli ayatollah. In Occidente la teocrazia giunse al suo culmine nel XIII secolo, quando Tommaso d’Aquino scriveva che «il potere civile è sottoposto a quello spirituale come il corpo all’anima», mentre i papi esercitavano tale potere anche sugli imperatori e «la filosofia del Vangelo», come disse con nostalgia Leone XIII, «governava la società» (Immortale Dei, 1885).
Oggi tuttavia, secondo un’idea molto diffusa, il cattolicesimo avrebbe ormai accettato, a differenza dell’islam, la laicità dello Stato, e a sognare uno Stato teocratico o confessionale sarebbero solo alcune minoranze marginali (lefebvriani, Fraternità di San Pio X e simili) e non la Chiesa come tale.
Ma quest’idea è del tutto sbagliata, poiché se l’apice della teocrazia fu nel XIII secolo, l’aspirazione a instaurare un tale regime caratterizzò il cattolicesimo fin dalla sua nascita, nel IV secolo.

Cristianesimo e cattolicesimo

Col Concilio di Nicea del 325, presieduto dall’imperatore Costantino, la Chiesa di Roma non soltanto formulò il proprio “credo”, ma condannò l’arianesimo e decretò la morte per chi «fosse trovato di avere nascosto un libro composto da Ario e non lo distrugga subito» (Dichiarazione di Nicea). In tal modo la Chiesa si proclamava l’unico cristianesimo legittimo – in opposizione ad altri via via definiti “eretici” nel corso dei secoli – e rivendicava il diritto di imporlo con la forza.
Nel 380 Teodosio formalizzò tale stato di cose proclamando religione di stato non ilcristianesimo, come spesso erroneamente si dice, ma la specifica dottrina «professata dal pontefice Damaso». I suoi seguaci, recitava l’Editto, «sianochiamati cristiano-cattolici» mentre tutti gli altri, eretici, siano puniti «non solo dalla vendetta divina, ma anche dal potere che la Volontà celeste ci ha accordato».
In conclusione, il cattolicesimo è un cristianesimo fondamentalista, anzi il principale (benché non l’unico, essendolo anche alcune confessioni protestanti).

Dal IV al XX secolo

Questi caratteri del cattolicesimo si precisarono in tutta la sua storia. Già nel V secolo Leone Magno elogiava la repressione statale dell’eresia poi istituzionalizzata con l’Inquisizione. Vi si accompagnò l’imposizione della fede cristiana in tutto il mondo, con le crociate e la “evangelizzazione” forzata delle Americhe. Ancora nel XIX secolo, la libertà di coscienza fu condannata come “delirio” da Pio IX (Sillabo, 1864). E fino a metà Novecento la Chiesa affermò che lo stato deve essere “confessionale” e legiferare in armonia con la religione. «La peste dell’età nostra», dichiarò Pio XI, «è il (…) laicismo», il quale «negò alla Chiesa il diritto – che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo – di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli all’eterna felicità» (Quas primas, 1925).
Né va dimenticata la contemporanea politica dei concordati, come quello del 1929 fra lo stesso Pio XI e Mussolini, mirante a conservare un carattere confessionale agli Stati, garantendo al cattolicesimo i privilegi propri della “religione di Stato”, con la conseguente imposizione a tutti i cittadini di leggi conformi alla dottrina morale cattolica in fatto di matrimonio, aborto, ecc.

Da Giovanni XXIII a Wojtyla e Ratzinger

Perfino Giovanni XXIII, il papa del Concilio Vaticano II, rivendicò il diritto della Chiesa a “guidare” la società civile. Nella Pacem in terris dichiarò che il potere statale non deve solo provvedere al bene terreno dei cittadini, ma agire «in modo (…) da servire altresì al raggiungimento del fine ultraterreno»; e ordinò ai politici cattolici di operare «in accordo (…) con le direttive della autorità ecclesiastica», cui spetta «di intervenire autoritativamente presso i suoi figli nella sfera dell’ordine temporale».
Tale fondamentalismo si accentuò negli anni seguenti. Il Catechismo della Chiesa cattolica del 1992 «invita i poteri politici a riferire i loro giudizi e le loro decisioni» alla «Verità (…) divinamente rivelata». E all’Angelus del 20 febbraio 1994, Giovanni Paolo II condannò una risoluzione europea favorevole alle unioni di fatto perché «non conformi al piano di Dio», cioè a quello che la Chiesa considera tale: quasi che l’Europa di oggi debba legiferare come l’Europa “cristiana” di Carlo Magno.
Del resto il progetto di Ratzinger è proprio di trasformare non soltanto l’Italia ma tutta l’Europa in uno Stato che tragga linfa dalle “radici cristiane”: «Voi sapete di avere il compito di contribuire a edificare con l’aiuto di Dio una nuova Europa», disse Benedetto XVI alla commissione degli episcopati europei nel 2007, «ispirata alla perenne e vivificante verità del Vangelo».

L’alibi del “diritto naturale”

Tali posizioni non possono evidentemente conciliarsi con la laicità dello Stato, la democrazia e la libertà di coscienza – riconosciute a parole dal Vaticano II –, se non ricorrendo a una gherminella.
Questa consiste nel far credere che le norme “conformi al piano di Dio” (come il matrimonio indissolubile, il no all’aborto, all’eutanasia, ai profilattici, ecc.) non siano valori “confessionali”, vincolanti solo per i cattolici, ma esigenze etiche appartenenti alla “legge morale naturale”, cui tutti devono sottostare (Nota dottrinale sui cattolici nella vita politica, 2002). 
Far passare le dottrine cattoliche per “diritto naturale” (stabilito, non si capisce a quale titolo, dalla Chiesa di Roma) è la tattica costantemente adottata da Benedetto XVI in questi anni. Ne segue che per lui lo stato è “sanamente” laico solo quando, dopo aver fatto uscire dalla porta la morale cattolica, la fa rientrare dalla finestra travestita da “diritto naturale”.
«Una sana laicità dello Stato comporta senza dubbio che le realtà temporali si reggano secondo norme loro proprie», disse Benedetto XVI nel 2006 ai vescovi italiani, «alle quali appartengono però anche quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo e pertanto rinviano in ultima analisi al Creatore». E poiché – come aveva detto Pio XI nel 1938 ai sindacalisti cristiani – «il rappresentante delle idee, dei pensieri e dei diritti di Dio non è che la Chiesa», il gioco è fatto.
Per le ragioni fin qui dette il cattolicesimo come tale, e non solo sue piccole minoranze interne, è un fondamentalismo. Le tattiche affinate per sopravvivere in un ambiente ostile, quello della modernità, lo hanno reso solo più insidioso di altri fondamentalismi. Quindi più difficile da smascherare e molto più pericoloso per la nostra vita democratica.

Testo d’archivio di NonCredo Rivista n° 8


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Comments

Una risposta a “Perché il cattolicesimo è un “fondamentalismo””

  1. Avatar Rubes
    Rubes

    Per un pianeta libero dai credenti.

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