di LUISA VERDINI <> Di insegnamento della religione cattolica (IRC) nelle scuole e dell’opportunità che i nostri istituti formativi continuino a portare avanti questo retaggio dei Patti lateranensi, “Numeri” si è già occupata nella sua prima puntata. Ora, però, urge riprendere il discorso per focalizzarsi non sull’aspetto legale della questione, non sul punto di diritto e neppure sulla valenza formativa dell’insegnamento in sé, ma sul piano umano.
Quanti sono gli studenti italiani che hanno deciso (per il tramite delle rispettive famiglie e dopo i 14 anni in completa autonomia) di non avvalersi dell’IRC? Quanto viene tenuta da conto nella quotidiana pratica didattica la loro dignità di individui che non chiedono altro se non di godere di un diritto assicurato dalla legge?
Alla prima questione, prettamente numerica, non è difficile rispondere, anche se, come si sa, le rilevazioni statistiche in Italia tendono ad essere sempre in ritardo rispetto ai tempi. Le ultime rilevazioni del MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) parlano di una percentuale del 7% di studenti che non si avvalgono di IRC, che sale al 13% nelle scuole superiori e addirittura al 51% in contesti metropolitani quali quello di Milano. In generale il lento ma inesorabile declino della fruizione dell’ora di religione è confermato anche dalla lettura dei dati forniti dalla Conferenza Episcopale Italiana, che ne attribuisce la responsabilità all’inarrestabile secolarizzazione della società.
Abbiamo, quindi, a che fare con un numero sempre crescente di ragazzi e di famiglie che, sulla base di varie considerazioni e motivazioni, scelgono di non usufruire di un insegnamento probabilmente lontano dal sistema valoriale che avvertono come proprio. Una moltitudine in silenziosa crescita che è, però, spesso ignorata dalle istituzioni scolastiche e lesa nei propri diritti umani prima che formativi.
La prima – e più sottile – discriminazione che i nostri studenti “fuori dal gregge” devono spesso subire riguarda le presunte motivazioni attribuite alla scelta della rinuncia all’IRC. Molti studenti, come si è detto, si avvalgono della religione nei primi anni del loro percorso formativo, per poi allontanarvisi in seguito. Il dato statistico si presta alla più naturale delle interpretazioni: con l’età il ragazzo giunge alla maturazione di una scelta consapevole e autonoma, che può anche discostarsi dai modelli sociali e familiari. Nelle parole di insegnanti e dirigenti spesso, però, questa decisione viene svilita e fatta rientrare nel campo dei banali trucchetti per studiare di meno e gli studenti che la prendono sono additati come svogliati o, nella migliore delle ipotesi, come “originali”. D’altra parte, sono ancora poche le scuole che hanno attivato, come da normativa, i corsi alternativi destinati a questi studenti, che spesso si ritrovano parcheggiati in un angolo, nella condizione meno favorevole per dimostrare di aver preso una decisione meditata, nell’interesse della propria formazione. È forse per questa distorta immagine di nullafacenza dei non avvalentisi che periodicamente ritorna la proposta di assegnare crediti formativi extra a chi frequenta l’ora di religione (per fortuna fino ad oggi respinta dal Consiglio di Stato)? La domanda, a ben vedere, è tutt’altro che oziosa in un Paese dove l’identificazione tra buon cittadino e devoto cattolico sembra ancora dura da estirpare. In questo senso, la restituzione della dignità della propria scelta a un numero non trascurabile di studenti è oggi un’urgenza morale prima che formativa in senso stretto.
Insegnamento della religione cattolica: la dignità di chi non se avvale
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