Il Vaticano è uno stato teocratico, il Tibet lo era e l’Iran lo è tutt’ora. E Israele?

di VERA PEGNA <>
La domanda posta dal titolo di questo articolo ne chiama altre.
Può uno stato democratico riconoscere diritti diversi a parti diverse della sua popolazione?
Può uno stato democratico basare i criteri di cittadinanza sulla religione o sull’ascendenza religiosa dei suoi cittadini?
Può uno stato democratico annettere territori di altri stati conquistati con la forza?
Può uno stato democratico occupare terre altrui, costruirci propri insediamenti e, per oltre 40 anni, privare la popolazione dei più elementari diritti umani, civili, politici e di sopravvivenza?
Può uno stato democratico sottrarsi ai controlli internazionali in materia di armi nucleari?
Può uno stato democratico violare norme del diritto internazionale quale quella sul diritto al ritorno dei profughi nonché i protocolli di Ginevra?
Può uno stato democratico rifiutare di dare seguito ad oltre 120 risoluzioni di condanna dell’ONU?
La risposta a tutte queste domande è NO e ne basterebbe uno di questi no per mettere in dubbio il carattere democratico di qualsiasi stato – ma, per carità, non di Israele che si fregia di essere l’unica democrazia del Medio oriente e come tale ci è presentato dai media. (Sarà per questo che ha sostenuto Mubarak fino alla fine e ha osteggiato la primavera araba?)
Le millenarie persecuzioni patite dagli ebrei europei e culminate negli eccidi nazisti, il progetto sionista che fonda la sua legittimità sulla Bibbia, l’appoggio anglo-americano alla creazione dello stato d’Israele e la complicità di regimi arabi autoritari e corrotti sono all’origine della nascita e dell’esistenza di uno stato che si definisce uno stato ebraico invece che una repubblica, ovvero uno stato di tutti i cittadini che godono di uguali diritti.
Il concetto di stato ebraico costituisce il fondamento stesso del progetto sionista. Nel dicembre 1938, un mese dopo il pogrom nazista contro gli ebrei noto com la “Notte dei cristalli”, Ben-Gurion, che fu il primo presidente del consiglio israeliano, spiegò in modo eloquente come si dovesse intendere tale aspetto essenziale del sionismo: “Se sapessi che fosse possibile salvare tutti i bambini (ebrei) della Germania trasferendoli in Inghilterra e solo la metà di essi trasferendoli a Eretz Israel, sceglierei questa seconda soluzione perché abbiamo davanti a noi non solo la responsabilità di questi bambini ma del sionismo. Il sionismo è un TRASFERIMENTO degli ebrei. In quanto al TRASFERIMENTO degli arabi (palestinesi) , esso è molto più facile di qualsiasi altro TRASFERIMENTO. Vi sono stati arabi vicini… ed è chiaro che se gli arabi (palestinesi) verranno rimossi verso questi stati migliorerà la loro situazione e non il contrario (Benny Morris, Righteous Victims, A History if the Zionist-Arab Conflict 1881-1999). Notare l’uso della parola “trasferimento” per indicare lo sradicamento della popolazione indigena per far posto ai rifugiati ebrei. Al giorno d’oggi tale pratica viene considerata un crimine di guerra e si chiama PULIZIA ETNICA.
Ma può uno stato essere democratico a macchia di leopardo?
Nel territorio precedente le conquiste territoriali del 1967 esistono effettivamente forme di democrazia come il rispetto dei diritti civili (anche se non uguali per tutti), la libertà di espressione e di associazione, nonché elezioni libere e regolari. Ma il mercimonio fra i partiti al governo e le istituzioni religiose è tale che, per esempio, non esistono matrimonio, divorzio o funerali civili e la compagnia di bandiera – credo unico caso al mondo – non vola il giorno del signore, per gli ebrei il sabato. Soprattutto, la discriminazione legale e istituzionalizzata di una parte della popolazione, quella non ebrea, cioè musulmana e cristiana, (oltre quaranta villaggi israelo-palestinesi sono totalmente privi di servizi pubblici) fanno sì che Israele viene da alcuni studiosi considerato una “low-grade democracy” e da altri una “etnodemocrazia”.
Il perseguimento del progetto sionista del Grande Israele, “patria di tutti gli ebrei del mondo” come recita la sua legge fondamentale è tutt’ora all’ordine del giorno. Tranne il minuscolo PC e l’altrettanto minuscolo partito socialista Matzpen, nessun partito o uomo politico israeliano se ne è mai dissociato. Con il beneplacito della comunità internazionale, Benjamin Netanyahu, capo del governo israeliano, chiede perentoriamente all’autorità palestinese di riconoscere Israele come stato ebraico, con Gerusalemme “capitale eterna”. (Già, ma nel 1948 l’ONU non aveva previsto uno statuto speciale per Gerusalemme, centro delle tre religioni monoteiste? E il Vaticano, che fa? Lascia perdere per farsi perdonare secoli di diffamazione dei “perfidi ebrei”, “popolo deicida”?) E quale Israele dovrebbero riconoscere i palestinesi, quello del 1948, quello comprendente le conquiste del 1967, quello con l’attuale muro che erode ulteriormente quel 20% di territorio rimasto ai palestinese e percorso da strade riservate agli ebrei? In inglese si direbbe che è come chiedere al tacchino di festeggiare il Natale.
Nel nostro paese è in corso un dibattito che si riassume nella frase: l’antisionismo è una forma di antisemitismo. Vorrei contribuirvi mettendo in evidenza alcuni tratti – troppo spesso occultati – del progetto sionista, della sua ideologia e degli obiettivi politici dei dirigenti israeliani che ne perseguono pervicacemente l’attuazione. Vorrei che questa mia critica documentata chiarisse senza ombra di dubbio che l’antisionismo non riguarda in nessun modo gli ebrei in quanto tali, né comporta alcuna forma di antisemitismo, ovvero odio degli ebrei e approvazione delle persecuzioni e dei massacri di cui sono stati oggetto in Europa. Vorrei altresì sottolineare che l’accusa di antisemitismo, insita nell’equazione fra antisionismo e antisemitismo, è talmente infamante che viene usata per tappare la bocca di chi denuncia la natura ineluttabilmente violenta e razzista del sionismo. Del resto, numerose sono le voci ebraiche che lo criticarono con forza. Fra queste ricordiamo Martin Buber, Albert Einstein, Judah Magnes e Moshe Menuhin (padre del grande violinista) che lo combatté tenacemente e denunciò «la macchina sionista che diffama, denigra, infanga chiunque osi criticare ciò che fa il sionismo in Israele e fuori».
Non insisterò mai abbastanza sul fatto che il sionismo, la sorte del popolo palestinese e il futuro dello stato d’Israele non riguardano solamente gli ebrei. Riguardano chiunque abbia a cuore i diritti umani, la legalità internazionale e la pace, ma anche il futuro dello stato di Israele, futuro che può essere garantito solo rinunciando al progetto sionista, proclamando la Repubblica di Israele e ponendo quindi fine alle sofferenze inflitte al popolo palestinese dal sionismo crudele e da chi lo appoggia e ne copre gli intenti.
Anni fa il piccolo partito socialista israeliano lanciò lo slogan: “Sionismo o pace, la scelta è vostra”. È uno slogan che riassume perfettamente la scelta, già chiara allora e sempre valida oggi, che abbiamo davanti. Significa che sionismo e pace sono incompatibili. Il progetto sionista, con il suo carico di conflittualità e di ingiustizie rende la pace impossibile. Dunque, come insegna il detto latino, “Si vis pacem, cole justitiam”, se vuoi la pace cura la giustizia.

(ARTICOLO DI ARCHIVIO)