Il suicidio. Diritto disponibile del singolo, dello Stato, o della religione?Il suicidio.
di CARLO PRISCO, avvocato <>
Dannato Socrate! Ciò potremmo esclamare aderendo ad una delle religioni che, come quella cristiana, condannano il suicida come peccatore mortale. Idem dicasi di Seneca, che scelse la medesima sorte, benchè stavolta a condannarlo fosse stato il suo antico discepolo Nerone e non già il popolo ateniese: con quel gesto il filosofo stoico aveva inteso affermare la propria volontà anche nella scelta suprema. Soltanto pochi mesi addietro il regista Mario Monicelli, di fronte alla malattia in fase avanzata da cui era affetto, ha deciso di interrompere la propria esistenza terrena prima che lo facesse la malattia. Semplificando non poco si potrebbe ravvisare una contrapposizione ideologica tra sostenitori e detrattori del suicidio basata sulla convinzione che ciascuno sia padrone e unico arbitro del proprio essere, oppure che altri lo sia, in particolare la divinità. D’altronde vi sono culti che incitano al suicidio, perlomeno in determinate circostanze, ed altri che lo condannano a priori: la cultura cristiana delle origini condannava il suicidio come un atto contro natura, un peccato capitale comportante la scomunica e il divieto di sepoltura nei cimiteri cristiani. Oggi la posizione della Chiesa cattolica, benchè notevolmente mitigata, è comunque di aperta condanna nei confronti di qualsiasi interruzione volontaria della vita.
Il diritto italiano, ispirato dai principi culturali e religiosi cristiani, sanziona in vario modo l’istigazione al suicidio, mediante l’art. 14 della legge n° 58/48 e l’art. 580 c.p., il primo volto alla repressione delle pubblicazioni rivolte ai fanciulli, ove ritenute potenzialmente istiganti, e, il secondo, inteso a reprimere la incitazione o collaborazione al fatto. In alcuni paesi il suicidio è considerato un reato, benchè sia lecito interrogarsi sull’efficacia di una simile norma: l’unica condotta perseguibile, infatti, è quella tentata e – da questo punto di vista – l’aspirante suicida, una volta commessi atti preliminari, potrebbe perfino essere scoraggiato dal chiedere cure o aiuto prima della morte, temendo le sanzioni conseguenti.
Una questione di grande attualità è il c.d. “suicidio assistito”: i progressi della scienza medica hanno condotto sì a un aumento della vita media, ma anche del numero di malattie gravi che ciascuno contrae durante l’esistenza. Molti discutono se sia lecito per un portatore di patologie gravi e/o incurabili disporre della propria vita, da cui l’inevitabile interrogativo: a chi può essere dunque demandata la disponibilità dell’esistenza umana? Le risposte possibili sono forse tre: al singolo, allo Stato (mediante le leggi), oppure alla divinità (in base all’interpretazione delle religioni). Evidentemente sia lo Stato, sia la religione, allorchè sottraggono all’individuo la possibilità di ricorrere all’eutanasia, compiono una scelta di natura dispositiva rispetto ai suoi diritti, impedendogli di lasciarsi morire rifiutando le cure mediche o mediante atti assistiti: l’unica opzione residua per il malato terminale è quella del suicidio. Non a caso il codice penale italiano, a partire dal 1942, ha previsto il reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), attenuando notevolmente la pena rispetto a quella prevista per l’omicidio. E’ lecito domandarsi: per quale motivo l’atto di pietà per eccellenza verso un animale, se rivolto verso un nostro simile, dovrebbe essere un reato? Oppure, al contrario, per quale motivo ciò che riteniamo criminale verso un uomo dovrebbe essere addirittura considerato un gesto compassionevole verso un animale? Inoltre, se il nostro destino è nelle mani di una divinità, perché dovrebbe essere consentito prolungare la vita allorchè la natura non lo consentirebbe e soltanto l’intervento di altri individui può realizzarlo? E, ancora, quali istanze religiose le leggi dello Stato dovrebbero accogliere? Forse quelle dei culti che innalzano il suicida a esempio di virtù? Oppure quelle che lo relegano agli inferi per l’eternità?
Un legislatore che si accosta alla materia non potrebbe/dovrebbe prescindere dalla distinzione dei casi di suicidio in base alle ragioni, che sono le più disparate, quali: il malessere psichico, financo patologico, le menomazioni fisiche, dolorose malattie incurabili, affermazioni di principio, protesta, religione, bene altrui, etc. La questione più controversa riguarda proprio la c.d. eutanasia, che il nome stesso suggerisce essere una “buona morte”, in contrapposizione a quella tormentata e dolorosa quale esito di un grave male: probabilmente la vera questione da sciogliere, prima di legiferare in materia, è alla radice: che un aldilà vi sia, oppure no, chi sarà tenuto a rispondere del gesto suicida?