Il rispetto del “sacro”
di NANDO TONON <>
Sul condizionamento che l’educazione religiosa impartita al bambino esercita sulla sua libertà di scegliersi un credo o di non averne alcuno, sono (o dovrebbero essere) tutti d’accordo.
Appaiono così evidenti le pressioni originate nel nucleo familiare e sostenute dalle abitudini religiose diffuse e imposte a ogni livello di crescita, che nessuno – se non vuol dare prova di plateale malafede – può disconoscere tale dato di fatto.
La constatazione si dimostra valida per ogni confessione abbia occupato e si sia radicata da tempo in un determinato territorio.
Non emergono con altrettanta immediatezza, invece, certe conseguenze psicologiche deformanti di quel giusto criterio valutativo che ognuno avrebbe il diritto e l’interesse a conservare integro. In altre parole, si determina nel credente, abituato fin dalla nascita a considerare normali e indiscutibili i presupposti del proprio credo, una rimozione totale della facoltà di giudizio per tutto ciò che concerne la religione, ritenuta sempre e comunque al di sopra di qualsiasi forma di revisione critica. Si assiste così a una pervicace riluttanza dell’indottrinato ad accettare il confronto dialettico, l’osservazione razionale, la discussione scomoda. Attorno al fatto o al concetto religioso si crea un’aura di soggezione rispettosa che elude qualunque tentativo di porre sul tavolo certe questioni.
Attorno alle ieratiche figure degli officianti, dei ministri del culto, dei predicatori, aleggia un’atmosfera di riguardo, di deferenza al limite del servile, cosa che non si registra in misura simile in alcun’altra circostanza o tipo di rapporto sociale.
Scenografie ipnotiche
Pensiamo al vescovo paludato con abiti e paramenti di broccato, al cardinale che saluta sorridente il popolo dei fedeli, la visita pastorale in un tripudio di ossequiosità, inchini, baciamani, paterne carezze, al papa che impartisce, solenne, la santa benedizione “urbi et orbi”: un’ininterrotta scenografia dai poteri quasi ipnotici. Ne scaturisce la salda convinzione che su certi argomenti non si può o non si deve parlare, discutere, contrapporsi.
Non ci si pone l’interrogativo se questo è giusto, è logico, è ragionevole, tutto o in parte: il sacro non va discusso, va rispettato, la critica, ancorché garbata e civile, è mal tollerata, non di rado percepita come blasfema. Non importa se un’idea potrebbe anche contenere degli elementi di irrazionalità: una volta che essa venga espressa con linguaggio teologico e diffusa sotto forma di messaggio religioso, diventa per ciò stesso credibile e inamovibile.
Il concetto del sacro, com’è noto, ha origini lontane e nasce dalla volontà e dall’interesse delle classi sacerdotali di creare una dimensione trascendente al riparo da ogni attacco o critica. Agevolato dalla naturale propensione umana a sperare nell’aiuto “magico” di qualche potenza superiore, esso, grazie alla protezione di tale corazza di intangibilità, è passato indenne attraverso la storia in virtù del mistero che lo accompagna: capace, in quanto tale, di incutere timore e sottomissione, persino senso di colpa soltanto a parlarne.
Un tacito galateo
Questo sentire di prudente riguardo, di rispetto reverenziale di fronte a ogni espressione del sacro si è andato via via banalizzando, “storicizzandosi”, trasferendosi nella prassi del vivere comune, nella formulazione delle regole della società civile, inducendo con ciò in tutti – anche i non credenti, gli scettici, gli indifferenti – una sorta di tacito galateo. Si è praticamente espansa e di seguito accettata l’idea che trattare argomenti religiosi in modo critico rechi offesa a chi crede.
Come sappiamo, oltre a ciò che viene avvertito dall’opinione pubblica, la stessa amministrazione della giustizia ne viene sensibilmente influenzata. Non occorre cercare esempi, ne abbiamo quotidianamente pesanti prove. dirette
Dunque chi mette in discussione il sacro – a qualsiasi titolo – è quasi tenuto a scusarsene preventivamente, preoccupato di non urtare la sensibilità del credente, a cui così facendo si concede un’immunità di fatto, un diritto di sottrarre la propria fede a qualunque genere di revisione critica.
Accade allora che nello stesso individuo – non importa quanto acculturato – trovino accoglienza, con analoga disinvoltura, tanto una serie di atteggiamenti improntati alla più solida razionalità, quanto costruzioni mentali immaginifiche, assai lontane da una realtà provata. Una promiscuità che pare non rechi alcun disagio se è vero che le nostre società sono largamente imbevute di credenze d’ogni genere, dalla volgare superstizione alle subdole arti della divinazione, dalla convinzione di poter parlare con i morti a – occorre dirlo – alle suggestioni della trascendenza escatologica.
E se sulle prime è concesso scherzare non altrettanto sulle ultime dacché cala subito il pesante sipario dei veti, palesi e occulti.
La bomba e le vergini
Persino all’interno del mondo credente, ove si trovi qualcuno che, pur aderendo alla propria religione, nutre dei dubbi sul suo contenuto teologico (clamoroso il caso del teologo Mancuso, ma non solo), questi non osa condurre a fondo la riflessione sino, eventualmente, alle estreme conseguenze, frenato com’è dal conformismo sociale, dall’incapacità di mostrare la necessaria spregiudicatezza, da una forma direi oblomoviana di pigrizia mentale.
Perché poi il sacro dovrebbe avere il diritto all’esenzione dalla razionalità non lo si comprende: forse il trascendente, in quanto tale, non deve rispondere a criteri di razionalità? La natura dell’Ente Supremo è quella di qualcuno che sragiona? Eppure se io sostenessi che Giunone è accanto a me in auto e mi assiste nella guida o che Giove mi ha direttamente incaricato di compiere una certa, speciale missione, non troverei un cane che non telefonerebbe subito alla neurodeliri.
Scrive Dagoberto Frattaroli (che ha ispirato il presente articolo): “La mente umana sembra divisa in compartimenti stagni e per questo accade che le affermazioni religiose siano immuni dalla pressione critica razionale (che si esercita in ogni altro settore della vita e del sapere umano – n. d. r.). Esistono infatti persone, così istruite da saper costruire una bomba e pilotare un aereo, che credono profondamente che dopo una morte eroica per motivi religiosi, li attende un paradiso abitato da tante vergini.”
Occorrerebbe allora che ci si sottraesse a questa specie di cappa protettiva allorché si dialoga del sacro, di religione: criticare non significa offendere e può, al contrario, condurre alla nascita di un sentimento religioso più autentico e concreto, finalmente al di fuori di una esasperata ritualità formale a cui sovente non corrisponde altrettanta genuinità di comportamento.