Spiritualità e intercultura: le stanze del silenzio

di GIANCARLO STRAINI <>
L’obiettivo di questa serata è mettere a confronto diverse visioni della spiritualità a partire dall’esperienza delle stanze del silenzio.
La stanza del silenzio è un dispositivo interculturale che, fornendo uno spazio in comune, dichiara la possibilità della convivenza tra diverse visioni, ed essendo neutro, privo di simboli, paritario, dichiara che ognuno può usarla senza doversi considerare ospitato, tanto meno subordinato a qualcun altro, o costretto a integrarsi, forzatamente o paternalisticamente, alla visione più diffusa.
In altri termini, questo dispositivo non si limita alla semplice tolleranza, più o meno sincera, che spesso porta alla ghettizzazione, ma garantisce l’uguale rispetto delle diversità, premessa necessaria del dialogo fecondo e dell’inclusione, favorendo (ma non obbligando) la curiosità per l’altro, la conoscenza reciproca, l’eventuale contaminazione.
Faccio parte di un’associazione di promozione sociale che, fondandosi sul razionalismo della scienza, promuove l’agnosticismo e l’ateismo. Per alcuni ciò implicherebbe l’impossibilità di esprimere una specifica spiritualità (data l’origine religiosa del termine) o, quanto meno, che una spiritualità atea non sarebbe altro che la dimostrazione di una mancanza, di una mancanza di dio o almeno della sua sublimazione in un bisogno di assoluto, di un’irruzione del sacro nel pensiero laico.
Esistono varie forme di spiritualità, in relazione alle diverse confessioni religiose e orientamenti filosofici; forme di spiritualità molto articolate anche all’interno di ciascuna credenza. La mia concezione di spiritualità, immanente e non trascendente, non assegna un primato e una autonomia allo spirito ma lo considera un prodotto umano. D’altra parte, scegliere di essere non idealisti ma materialisti non implica necessariamente diventare nichilisti, oppure “materialoni” (riassumo in questa etichetta l’essere meccanicisti, riduzionisti, deterministi, positivisti).
Per me, la spiritualità atea è il nostro rapporto, dotato di senso, con l’indefinito; è lo stato d’animo e la sensibilità particolare, sospesa, irriducibile, non del tutto razionalizzabile, che si può provare – per esempio – di fronte a un’opera artistica, a emozioni non metabolizzate, più in generale a fenomeni complessi.
Il paradigma della teoria economica neoclassica e neoliberale – oggi dominante – presuppone un mercato dove individui atomizzati, equipotenti, perfettamente informati, compiono scelte sempre razionali; presuppone che non ci sia barriera all’ingresso, per esempio, per una piccola impresa che vuole produrre un nuovo smartphone o un nuovo farmaco; che non esistano griffe e pubblicità che influenzano i consumatori; che non esistano multinazionali o altre imprese che hanno più potere di un artigiano. Insomma, un individuo astratto e poco realistico.
Le scienze cognitive invece ci insegnano che noi agiamo prevalentemente “in automatico”, sulla base di credenze acquisite, e solo occasionalmente “aggiustiamo” alcuni aspetti di queste credenze tramite la ragione scientifica. Faccio qualche esempio, in modo grossolano e schematico per i limiti di tempo (e per i limiti miei).

Stanza del silenzio a Siena

Lo psicologo Jean Piaget sostiene che azioni e comportamenti si strutturano in uno “schema operativo” che favorisce l’assimilazione delle nuove esperienze, ma al variare delle situazioni si può determinare un accomodamento, una ristrutturazione dello schema stesso.
Fin da bambini assimiliamo rappresentazioni mentali (script, copioni) che collegano comportamenti ed emozioni a determinati eventi. Gli schemi possono essere elementari – come gli automatismi di quando si guida una bicicletta – o molto complessi e ricorsivi; alcuni schemi sono potentissimi, sperimentati nei secoli, persistenti (si pensi al patriarcato).
L’utilizzo di bias (pregiudizi) non riguarda solo i singoli individui ma – come sostiene il sociologo Pierre Bourdieu – nelle relazioni sociali sviluppiamo habitus, disposizioni durevoli, che sono strutturati dalle nostre credenze e contemporaneamente le strutturano.
Anche gli scienziati adottano un paradigma (una costellazione di fatti, teorie e metodi), come ci insegna Thomas Khun in La struttura delle rivoluzioni scientifiche.
Quanto detto e molto altro – per esempio i teoremi di incompletezza di Kurt Gödel – hanno spinto molti razionalisti materialisti a essere un po’ meno “materialoni” (nel senso che indicavo prima).
Semplifico ulteriormente. Quando osservo un rosso tramonto posso considerare come l’intensità del colore dipenda dall’inclinazione dei raggi del sole e dal pulviscolo atmosferico, oppure (non alternativamente) posso lasciarmi prendere da emozioni e ricordi.
Questa rappresentazione del tramonto, non del tutto scomponibile nei suoi elementi fisici, non del tutto spiegabile nei suoi dettagli, che sintetizza, unifica, anche aspetti indefiniti e immateriali, può – a mio parere – essere considerata come un modo personale, immanente, materialista, di cogliere lo spirito del tramonto, o di esprimere una personale spiritualità.
Questa espressione particolare della spiritualità può essere considerata analoga a ciò che, più in generale, si intende con il termine Zeitgeist. Con il termine spirito del tempo si intende sinteticamente il senso, la tendenza, il carattere di un periodo storico, anche quando si affrontano fenomeni complessi, non del tutto spiegabili razionalmente nei loro dettagli, ma pur sempre interpretabili nel loro insieme.
Anche perché – come sostiene il pedagogista Jerome Bruner – c’è quasi sempre compresenza di un pensiero paradigmatico, descrittivo, che usa proposizioni ben formulate su come le cose sono, e di un pensiero narrativo, normativo, su come le cose potrebbero o dovrebbero essere.
Sottolineare, come sto facendo, i limiti della razionalità e la compresenza di credenze narrative che includono anche forme di spiritualità, non significa svalutare la razionalità della scienza. Anzi, è proprio la consapevolezza dei limiti che, evitando lo scientismo (cioè il presentare come assolute le verità parziali e provvisorie della scienza) consente l’utilizzo appropriato del metodo scientifico in tutti i campi.
Dunque, quello che sto schematicamente proponendo, è un atteggiamento basato su un realismo moderno, che persegua una visione critica, ma rifiutando il soggettivismo e il nichilismo del pensiero postmoderno, quello per cui non ci sarebbero più fatti ma solo interpretazioni (Nietzsche), non ci sarebbero più mondi, ma solo immagini-del-mondo (Heidegger).
Per gli atei – quelli non postmoderni e non “materialoni” – la realtà sociale non è un insieme di essenze, di sostanze stabili e fisse prodotte da iperuraniche leggi naturali o divine, ma è fatta di relazioni storicamente sedimentate, dotate di senso, come una tela (una struttura sociale), costituita da fili (da relazioni) che definiscono i nodi (gli individui): relazioni che producono e sono contemporaneamente prodotte da habitus, schemi cognitivi e comportamentali persistenti.
Le Stanze del silenzio sono diffuse soprattutto negli ospedali perché svolgono anche una funzione terapeutica. Ormai è ampiamente riconosciuto che la salute dipende anche dal benessere psicologico, relazionale, spirituale dell’individuo, e – ci insegna la semiotica – la memoria è quasi sempre associata a eventi traumatici.
Non a caso, le stanze del silenzio spesso prevedono anche la fornitura di assistenza spirituale (talvolta anche di una assistenza spirituale non confessionale) perché possono essere il luogo dell’elaborazione del trauma e della sua memoria (della sua ri-elaborazione).
Comunque l’assistenza spirituale non confessionale, o meglio il dialogo su temi spirituali tra atei e agnostici (senza pretesa di definire rigidi idealtipi), generalmente non assume le forme ritualizzate della preghiera, solitaria o collettiva, o guidata da personale specializzato; preghiera basata sull’idea (credo comune a tutte le religioni) di dono: un dono ricevuto o da ricevere, definito gratuito ma in realtà gerarchico, che implica una obbligazione nei confronti della divinità (cioè della sinagoga, dell’ecclesia, dell’umma).
I comportamenti di atei e agnostici, in quanto fondati su una idea di autodeterminazione, tendono a esprimere la loro spiritualità, se non con la meditazione solitaria, con un dialogo amicale relativamente paritario, tranne ovviamente quando il rapporto è medicalizzato, sotto la guida di un professionista (per esempio di uno psicologo).
Ma le stanze possono (e devono) essere anche il luogo della gioia e della meditazione, non solo del dolore, perché sono molto di più di un semplice luogo: sono un “vuoto” pieno di senso, che costruisce relazioni; un hardware dotato di un suo software; un progetto politico inclusivo; una pedagogia circolare; un’educazione alla democrazia, al rispetto, al dialogo.
Ho cercato di descrivere in poche schematiche parole (e con i miei limiti) cosa intendere per spiritualità atea, una visione specifica che però ha anche molti punti di contatto con altre visioni della spiritualità, perché le diverse tradizioni culturali, religiose, filosofiche, hanno molti più elementi in comune di quanto generalmente si pensi.
L’Europa ha indubbiamente anche radici giudaico-cristiane, come ha radici nel diritto romano, nella filosofia greca (riscoperta anche grazie agli arabi), nell’etica protestante che ha fondato lo spirito del capitalismo (e viceversa); peraltro, il campo semantico del termine Beruf (vocazione professionale) non mi sembra cosi distante da quello del termine Jihad nel suo significato di impegno.
Il confronto tra culture, concezioni del mondo, stili di vita, ideologie diverse, per non diventare scontro settario, deve muoversi su un sentiero stretto tra omogeneizzazione forzata e formazione di ghetti, tra una anche inconsapevole riproposizione della superiorità dell’Occidente e un asociale “pluralismo” dell’indifferenza e dell’abbandono.
Dunque servono buone pratiche basate sulla laicità e sul rispetto per l’altro, e strumenti che le favoriscano.